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“Anche ai funerali c’era l’allegria” racconta Alfonso Burgio

“Anche ai funerali c’era l’allegria” racconta Alfonso Burgio. Le abitudini e gli stili di vita sono in continua evoluzione e niente può tornare come prima. Anche l’allegria è cambiata. Decenni fa si ci divertiva veramente con poco e quel poco, dava libero sfogo alla fantasia e anche allo spirito di collaborazione. Oggi invece succede che quel tanto che si ha mette tutti in disparte, in una lotta continua all’individualismo. Dietro a tutto ciò, una cosa certa che è in grado di trasmettere un forte impatto emotivo, è quello di poter mantenere vivo il ricordo del tempo passato, raccontando i tratti della propria adolescenza. Come? Con la narrazione delle proprie esperienze. Ed è così che il nostro Alfonso Burgio, nelle righe che seguono, ci racconta un pezzo della sua giovinezza, raccontando come un funerale poteva trasmettere attimi di gioia.

RIDERE, ETERNAMENTE RIDERE. Molte tradizioni ormai sono scomparse da tempo. Nella storia della nostra Canicattì, per un lungo periodo, ha resistito una tradizione che ricordo benissimo. Noi ragazzini di allora la vivevamo come un “divertimento”, anche se di allegro non c’era completamente nulla. Ebbene, a quei tempi (primi anni ’60) era una prassi che il defunto lo si accompagnava all’ultima dimora con un corteo che si snodava a piedi e che, a sua volta, seguiva il carro funebre trainato da un cavallo. Tutto il corteo funebre doveva seguire obbligatoriamente un tragitto con un’annessa fermata. La fermata, di cui trattasi, era prevista al giungere nella chiesa del “Purgatorio” dove la bara la si trasportava dentro per alcuni minuti, e cioè il tempo che il sacerdote desse la “Santa Benedizione” (allora la funzione funebre non prevedeva la santa messa come avviene oggi). Non ricordo come facevamo a sapere che in quel determinato giorno c’era un funerale, ma sta di fatto che quando la bara entrava nella chiesa del Purgatorio, noi ragazzini eravamo lì presenti ad ascoltare l’ultima benedizione del prete che la recitava rigorosamente in latino. Era proprio questo rito che ci dava tanto “interesse” perché non capivamo il significato delle parole, ma ci piaceva tanto il susseguirsi delle stesse al punto che storpiavamo, a modo nostro, tutto il contesto con l’ovvia conseguenza che questo nostro “artifizio” ci induceva a ridere da “morire”. Insomma, noi povere creature, eravamo capaci di trasformare un momento tragico in un innocente gioco. Ovviamente tutto questo era davvero grottesco, ma sinceramente vivevamo a modo nostro la tradizione. Nella foto allegata la “Chiesa del Purgatorio”, sede delle ingenue “malefatte”.

Alfonso Burgio

Nei racconti della sua gioventù, il Burgio tende ancora una volta a raccontare con enfasi, il modo semplice con i quali “i figli degli anni 50” riuscivano a divertirsi con poco, anche in momenti tristi e dolorosi come quello suddetto che non voleva essere un atto deplorevole nei confronti del defunto.  Anzi vuole marcare il fatto di come un attimo doloroso può essere il momento della “rinascita”, mantenendo acceso un ricordo nel tempo, evidenziato dalla goliardia dell’adolescenza. Si vuole cogliere l’occasione per ringraziare il nostro amico Alfonso Burgio per le sue preziose esperienze di vita.

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